Giovanni Cogliandro, challenge e Scuola: quell’ abisso di solitudine dei giovani

Il mettersi alla prova non nella vita reale per raggiungere un obiettivo, ma sul virtuale per raggiungere più followers possibili. Mettersi cosi alla prova anche a costo di morire o di provocare la morte di altre persone. E’ palesemente turbato dalla sempre più pressante manipolazione sulla mente dei giovani di alcuni social, cosi allarmato da decidere d’intervenire con una riflessione sulla tematica. Un modo per mettere un freno ad una pratica sempre più delirante. “Riscopriamo la meraviglia della Scuola” ci ha detto il giovane dirigente scolastico, Giovanni Cogliandro, filosofo e vicepresidente di Anp – Roma. A proposito di sfide social, il preside Cogliandro, che si è lasciato andare ad un excursus pedagogico, non ha dubbi, il tutto trae origine ed è: “…il frutto di un abisso di solitudine in cui si traduce spesso l’esperienza domestica e da cui si generano le pratiche a volte assurde che consentono a giovani (e anche ad adulti) di dire: ci sono! Esisto! Dammi attenzione! Questo il grido di paura e di dolore esistenziale che fa da sottofondo sordo alle challenge, sfide autoimposte abilmente manovrate da chi ci lucra ben di più di quanto e fruttano a questi influencer, comunque così tanti soldi da potersi permettere una vita di lussi ed eccessi a meno di vent’anni”.

di Francesca Gabriele

Preside, uso questo termine perché mi ci sono affezionata, e perché rispetto al più contemporaneo dirigente dà il senso dell’autorevolezza che deve arrivare da chi ricopre un incarico come il suo. A proposito di autorevolezza, tiene sempre più banco il dibattito di questa Scuola sempre meno vista dagli studenti come un luogo d’istruzione, ma anche di regole. Che cosa sta accadendo a questi nostri giovani? E alla Scuola?

Giovani protesi nell’inseguimento di un mito di supremazia e di invincibilità, connotato frequente delle loro sfide, perché probabilmente di fatto lasciati soli anche durante la loro permanenza a casa in cui avrebbero probabilmente potuto dialogare di più con i loro genitori. Questa l’assurdità tremenda, il frutto di un abisso di solitudine in cui si traduce spesso l’esperienza domestica e da cui si generano le pratiche a volte assurde che consentono a giovani (e anche ad adulti) di dire: ci sono! Esisto! Dammi attenzione!
Questo il grido di paura e di dolore esistenziale che fa da sottofondo sordo alle challenge, sfide autoimposte abilmente manovrate da chi ci lucra ben di più di quanto e fruttano a questi influencer, comunque così tanti soldi da potersi permettere una vita di lussi ed eccessi a meno di vent’anni. I ragazzi di Casal Palocco, gli youtuber che hanno causato la morte del piccolo Manuel, sono carnefici e vittime di se stessi, oltre ad avere indiscutibili gravissime responsabilità morali, per avere causato questa morte insensata, per un clima di sfida continua contro se stessi.
Questo urlo sordo, questo vuoto abissale non deve solo indurci ad autobiasimarci come adulti, genitori e insegnanti. Deve invece essere occasione perché si possa trarre spunto da questa tragedia non solo per un nuovo capro espiatorio secondo le movenze ben descritte da Renè Girard, ma per pensare che sia possibile anzi sempre più indispensabile e vitale perseguire a Scuola un percorso di intersezione tra insegnamento, narrazione ed esperienza.
Una tale dinamica a mio parere può trovare punti di incontro tra i trascendentali bello, buono, giusto, pensando e descrivendo la bellezza come un anelito e un bisogno primario di ciascun essere umano, una bellezza che si trova negli sguardi, nelle parole, negli affetti delle persone reali, corpi pulsanti che questa iperfetazione di challenge, sfide virtuali, nasconde o sovrastimola fino al punto di uccidere.

Mi sto approcciando ad una realtà che mi narravano: da giornalista ricordo un viaggio mediatico intrapreso con e tra i suoi colleghi di Cosenza. Sono passati dieci anni circa, io quel loro entusiasmo, in questa realtà non l’ho trovato. Esagero se le dico che da cronista, abituata ad osservare l’altro, ho colto più disagi tra gli adulti che tra i giovani? Perché tutta questa rabbia?

L’urgenza educativa di cui è spia inquietante la solitudine degli youtuber di Casal Palocco è a mio parere una difficoltà ormai endemica che può essere superata con l’impegno a insegnare un dialogo consapevole dato che ormai molti dei nostri ragazzi trascorrono più tempo a scuola che in famiglia. Come persone di Scuola dobbiamo cercare di promuovere in tutti i nostri studenti la gioia di vivere, l’espressione autentica, il gusto della ricerca, il senso di responsabilità, la ferma determinazione a rispettare e aiutare gli altri. Il terribile incidente mortale della scorsa settimana a Casal Palocco ci induce a riflettere sul senso profondo del nostro essere insegnanti. Oggi i nostri studenti sembrano – già a partire dai dieci anni, all’inizio del secondo ciclo d’istruzione – essere vittime di uno squilibrio tra un apparato cognitivo esteso, potenziato dai tanti strumenti dell’intelligenza artificiale, e una sensibilità destrutturata per quanto concerne l’interazione con il mondo fisico e i bisogni affettivi e sociali che costituiscono la personalità di ciascuno di noi. Il cyberbullismo che si è sviluppato negli ultimi anni è più aggressivo del bullismo concreto perché – come nella guerra a distanza – il bullo non vede l’effetto della violenza da lui agita, non vede la sofferenza che infligge in tutto il suo concreto dispiegarsi.

La sua riflessione di recente pubblicazione mi ha ricordato una canzone “La cura” del maestro Battiato. I genitori che sbucciano la frutta ai figli che sarà la loro merenda a scuola. Il ricordo va alle nostre mamme che in silenzio si alzavano all’alba e deponevano nella cartella, poi nel tempo diventata zaino, il pane caldo con la marmellata. Prendersi cura dell’altro… Preside, non è che forse ci stiamo smarrendo o ci siamo già smarriti oppure abbiamo camminato troppo in fretta inoltrandoci in una selva oscura fatta di virtuale dalla quale non sappiamo uscire?

Come ho scritto qualche giorno fa mi ha molto colpito la dolcezza di questa osservazione riferita in un colloquio da un’insegnante neo-immessa in ruolo, ma con diversi anni di esperienza come docente, che con semplicità e profondità insieme mi ha riferito di aver notato con sguardo attento questo quotidiano gesto di cura e affetto, il provvedere a che i propri figli, i nostri studenti, arrivassero a scuola con i mandarini già sbucciati.
E’ un gesto dolce, che manifesta cura e affetto, tipico di alcune famiglie, che ha suscitato l’attenzione di diversi docenti e anche della Direttrice della rivista online “Tecnica della Scuola” che mi ha proposto di inserirlo nel titolo del mio contributo. Ho riflettuto sul fatto che questa frutta resa accessibile da madri e padri che manifestano il loro affetto con tenerezza, cercando di limitare in ogni modo la fatica dei loro figli trovano nella metafora di questi mandarini un esempio, secondo me ostensivo e illuminante insieme, di quanto le sfide virtuali, le challenge, come quella che ha causato la morte del piccolo Manuel. Questo tragico evento ha scatenato come abbiamo visto una grande ondata di commozione che ha avuto anch’essa la sua principale espressione tramite i social, ma anche nella concretezza di fiori e pupazzetti che sono stati lasciati in via di Macchia Saponara da tantissime persone, a poche centinaia di metri dalla scuola che dirigo.

Osservo una società di giovani non demotivati, ma poco curati a casa e poco motivati nelle aule. Troppo genitori che più che sbucciare una mela al figlio, dando l’immagine di cura, serenità, tenerezza, pretendono che questi siano piccoli geni, e se non lo sono, diventano aggressivi e ossessivi con i docenti rei di non certificare le loro ambizioni. Docenti, che spesso, troppo spesso, come ci racconta oramai quotidianamente la cronaca, si trovano da soli. Non è il caso che con il nuovo ministro si cominci a parlare di allontanare i genitori dalle aule e di rivedere la legge 107 del 2015?

Solo la continua scoperta della meraviglia per legami di affetto, legami realizzati con la cura e l’attenzione chi vuole essere accompagnato nella propria crescita dai propri docenti, legami che sorgono in contesti che pongono sfide, fuori dalla propria famiglia, un vero ingresso nella socialità fondato su legami nuovi che si costruiscono a Scuola, può dispiegare la maturazione dei nostri allievi. Infatti sono convinto che sia nostro compito mostrare come si diventa cittadini, senza sostituirci alle famiglie ma senza cedere a chi vuole che la Scuola si pieghi alle richieste di famiglie che a volte non sono in grado di comprendere il senso profondo dell’essere cittadini, del socializzare, del creare amicizie virtuose nel senso esplicitato da Aristotele nei libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea, testo denso ma di non impossibile comprensione per il lettore medio e che incoraggio a leggere, a compulsare come un laico breviario di cittadinanza. Parlo spesso di educazione alla bellezza e di cittadinanza estetica, di meraviglia dello stare in classe e del vivere le proprie emozioni verbalizzandole non solo mostrandole su schermi algidi di cellulare. Una continua meraviglia è il verbalizzare insieme, come Adamo dare il nome alle cose e agli animali, alle emozioni e ai vissuti autentici, la definisco con la parola greca del verbo meravigliarsi un rinnovato thaumazein scolastico. Solo questa meraviglia, questo rinnovato thaumazein scolastico, ci potrà salvare dal dramma senza senso di queste sfide false, challenge sterili e mortifere come quella di Casal Palocco, svolta per decine di ore da giovani esausti e storditi per acquisire nuovi finanziamenti da sponsor sempre più cinici.
Thaumazein è l’inizio del filosofare secondo Platone e Aristotele, è l’inizio del conoscere autentico quindi il radicamento profondo dell’indagine che si conduce in classe, non la trasmissione di nozioni ma l’apprendere un metodo rigoroso e creativo di scoperta.
La meraviglia di scoprire legami veri, amicali e autentici con i propri compagni di classe e con i propri docenti, potrà offrire orizzonti di senso e bellezza che siano valide alternative allo stordimento di sfide sempre più estreme che, come la foga di accumulo di ricchezza e di like, esprimono solo un’abissale solitudine.

Togliamo i cellulari dalle aule, affrontiamo un percorso di disintossicazione dai social, meno docenti amici degli alunni, lo diciamo spesso, ma poi nulla cambia. Ritorniamo alla scuola tradizionale autorevole e meno amicale? Ne parlavo con un amico sindacalista che abbiamo in comune: lei pensa che davvero tutti questi nostri giovani abbiano bisogno del “supporto didattico” oppure sono semplicemente smarriti, e più che avere problemi cognitivi avrebbero bisogno di maggiore attenzione didattica, più presenza degli adulti e meno bisogno di emulare i social per arrivare anche ad uccidere o uccidersi?

La prassi ormai condivisa da molte Scuole di vietare l’uso dei cellulari e dispositivi di accesso alla rete evoca concetti resi noti nel dibattito pubblico, tra i quali merita attenzione particolare il temine onlife, crasi coniata da Luciano Floridi (filosofo italiano da molti anni docente ad Oxford e da poco a Yale, specialista del rapporto tra filosofia e informatica) che ha avuto molta fortuna negli ultimi anni. Onlife è utile sintagma per definire quella che può essere vista come una ormai irreversibile e continua immersione delle relazioni personali nella tecnologia di internet, al punto che vita e rete, life e online, diventano parti di un unico vissuto ormai inscindibile. Floridi ha elaborato tale crasi già da alcuni anni, come utile espediente descrittivo per i mutamenti sociologici e antropologici nelle interazioni mediate da computer e smartphone tra giovani e adulti, mutamenti che si dimostravano essenziali già prima dell’avvento della pandemia. Tuttavia questo approccio sembra lasciare quasi come naturale questo mutamento già impressionante, senza offrire adeguate possibilità di riflessione e valutazione critica, sia dal punto morale che politico, quasi fosse un’ineluttabile seconda natura. Tale situazione è stata resa parossistica dall’evoluzione improvvisa causata dalla pandemia che ci ha costretto a spostare l’attività didattica e quasi l’intera esperienza scolastica in contesti onlife, da svolgersi tramite la Rete, con ricadute importanti a livelli relazionali e psicologiche, non solo per tutti gli alunni e gli studenti, per tutte le famiglie e i docenti della scuola. Non credo si possa resettare tutto ciò, cadere in forme di neoluddismo, coltivare nostagliche antipatie a priori per le forme di tecnologia che hanno comunque reso possibile una prosecuzione dell’esperienza della scuola. La mia idea è comunque che non si debba enfatizzare ed esaltare tali opportunità oltre misura come hanno fatto alcuni teorici del movimento di pensiero noto come transumanesimo (a volte indicato come Humanity Plus o semplicemente con la sigla H+), che si è diffuso prima in rete e poi nelle università, che vedono come Julian Savulescu solo le opportunità o solo i rischi di tali espansioni dell’attività delle menti fino all’interazione con le macchine ormai sotto pelle come nell’ideale regolativo del cyborg. Tale ideale regolativo non è accettabile, come anche non si deve cadere negli eccessi pessimistici magari conseguenti a una lettura delle teorie di Nick Bostrom, o all’opposto nell’eccesso di ottimismo derivante dal pensiero della singolarità, cioè del superamento dell’intelligenza umana ad opera delle macchine il cui teorico più noto è Ray Kurzweil. Mantenere una vigile attenzione critica e valutativa senza cadere negli eccessi opposti è compito del gestore politico la cui attività può trarre sempre nuovi spunti dalla riflessione dei filosofi. La costruzione armonica di una città parte oggi, più che in passato, da un nuovo modo di pensare la Scuola, espressione delle prime esperienze di vita sociale e comunitaria da parte di piccoli uomini e donne che sono adulti in fieri e si stanno formando in quanto tali. La scuola è comunità educativa, espressione più bella dell’attuale sintagma alla moda comunità educante: educativa perché questo aggettivo rende meglio di qualunque participio presente la stabile coessenzialità dei due lemmi comunità ed educativa per la descrizione della scuola, realtà complessa ed essenziale della vita civile, realtà che senza di ciascuno di questi lemmi costitutivi semplicemente non sarebbe. L’educazione, a sua volta, come evidenziato da Schiller, Schelling e altri filosofi più volte ricordati anche da teologi come Von Balthasar, è estetica oppure non è. Da qui la compartecipazione di polis e aisthesis che costituisce l’ambizione che viene declinata nel nostro essere insegnanti.

Quando abbiamo concordato l’intervista ero in compagnia di un noto uomo politico. Mi ha chiesto di chiederle un parere sull’autonomia didattica e sulla burocratizzazione selvaggia nelle scuole che toglie tempo alla didattica. La prima la ritiene vincente? La seconda si cercherà di renderla più “snella” e meno elaborata?

Essere Scuola oggi significa essere costruttori di affettività e socialità: la capacità di interagire con gli altri, il sapersi amato e la capacità di amare, sono fondamentali per l’essere umano poiché garantiscono la fioritura della persona in contesti di comunicazione vera. L’esperienza scolastica coniuga tali bisogni elementari con l’impegno a promuovere la centralità della persona e i diritti presenti nella nostra Costituzione. Da diversi anni sono dirigente scolastico e credo che – oggi ancor di più in questo nuovo deserto di umanità sempre più connessa ma sempre più sradicata dalla propria affettività e dalla propria capacità di comprendersi – sia nostro dovere di docenti e persone di Scuola impegnarci a rispondere a questa emergenza umana prima ancora che educativa. Tragedie come quella di Casal Palocco devono spingerci sempre più a praticare quotidianamente una didattica creativa, attenta e aperta al tempo stesso, che possa essere di stimolo per l’espressione e lo sviluppo degli studenti, delle loro facoltà, delle loro curiosità, favorendone il naturale desiderio di apprendere e socializzare. Tale pericolosa tendenza non sarà risolta se le politiche scolastiche continuano ad avere come fulcro degli investimenti la digitalizzazione, che certamente può aiutare, ma certo non sostituire la didattica dei docenti, anzi che di fatto può persino contribuire a legittimare una desocializzazione tra sguardi e volti.

Si dovrebbe dare ancora più spazio all’educazione civica?
L’educazione civica è oggi considerata una necessità sociale, come dimostrato dal recente intervento normativo che l’ha resa obbligatoria nelle scuole e che va in questa direzione di riconoscimento di un’istanza ormai imprescindibile per la ricostituzione di una polis in cui le tensioni sociali e le asimmetrie economiche, unite negli ultimi anni al crescere delle paure anche irrazionali, hanno reso remota l’armonia e trasformato la città in una realtà fin troppo frammentata. La Scuola è stata sempre percepita come lo specchio della comunità che la generava. Questo valeva già per la prima scuola istituita di cui si abbia notizia, la confraternita dei pitagorici, il cui scopo era l’iniziazione dei giovani a un bios theoretikos, inteso come stile di vita capace di elevarsi al di sopra del mero perseguimento dell’utile, come è stato ben rilevato da Platone e Aristotele.Il legame comunitario che si struttura a scuola va ad affiancare come dicevo prima quello degli affetti e delle empatie familiari. Gli alunni percepiscono il rapporto tra di loro e con i loro docenti sin dalla scuola primaria come una progressiva crescita comunitaria, un’educazione alla cittadinanza che aspira e tende ad essere educazione all’armonia. Ritengo che un tale legame sempre in evoluzione riesca al meglio ad essere impostato ed espresso nella modalità della percezione comunitaria delle varie forme di bellezza che si possono presentare, figurativa, musicale, teatrale, dialogica, una bellezza che va di pari passo con la fiducia più che con la percezione dell’autorità, neutralizzando il consueto e tradizionale paternalismo dell’istituzione scolastica a favore di un rapporto fondato più sull’empatia che sul timore, e quindi su un rispetto basato sulla meraviglia, che non è rispetto di una gerarchia, ma di un volto e di una persona.