Il romanzo di Attilio Sabato è curioso perché pieno di inaspettate svolte narrative. Sembrerebbe che … ma poi così non è o non sarà. La protagonista incontestata è la iubris del titolo, la pervadente tracotanza, la superbia e la prevaricazione a cascata nei confronti di chi è più debole. L’azione si svolge in un paese della Calabria, ma è come dire nulle part, per parafrasare Alfred Jarry, perché alcun riferimento topografico o culturale ci permette di identificarlo. Un paese piccolo, lo ripetono vari personaggi, ma in realtà non sarà poi tanto piccolo se ospita addirittura una sede diocesana. Un paese bello, come sono tutti gli antichi borghi calabresi, dall’impianto medievale, ma le sue vecchie dimore e palazzi sono vuoti o mal abitati, le illuminazioni incerte, la toponomastica inesistente.
Vi regna un’atmosfera surreale, degna appunto di Ubu Re, percepibile fin dall’incipit del romanzo. Lassù, nella parte del paese una volta gentilizia e ora deserta, tra gli stretti vicoli, sembrerebbero risiedere almeno due dei poteri moderni foucaultiani, quello ecclesiastico e quello medico, ma – come scopriamo subito – essi sono inesistenti e insignificanti. La Chiesa era stata retta fino a poco tempo fa dal vescovo Don Colosimo, un vero mascalzone, amico di cardinali potenti, “uomo di poca fede ma di tante malefatte”; talmente tante da indurre la Santa Sede addirittura a rimuoverlo dal seggio. Sostituito da Padre Mario, un prete buono, all’antica; ma di una ingenuità tale da lasciarsi plagiare dallo spregiudicato e intraprendente Don Pino, fino a venire anch’egli rimosso per l’acclarata incapacità. Non va meglio per il secondo potere, quello della scienza-medicina, rappresentata dal medico condotto Don Ruggero Mitraglia. Favorito dalla curia e da altri potenti, Don Ruggero, anche quando incapacitato da un incidente quasi mortale, si ostina a svolgere le proprie attività di medico a condizione di una sorte di monopolio, prescrivendo a tutti i pazienti la cura di camomilla.
Così, due dei tre poteri moderni scompaiono, diventando parte tacita del contesto e del consenso attorno a uno solo, la Politica. Questa, sì, è onnipresente, incarnata in un unico protagonista, Don Pepè. Sindaco da oltre vent’anni, un uomo prepotente, autoritario, brutale e spregiudicato, esercita un dominio assoluto nella gestione del municipio e dell’intero paese. Non ci è dato di sapere quale sia il suo partito o almeno la parte politica di riferimento, giacché l’unica distinzione che egli opera è quella tra i suoi elettori, da una parte; e detrattori, ingrati e voltagabbana, dall’altra. Una breve comparsa di un “avversario” politico, un giovane comunista, finisce subito con l’assorbimento di quest’ultimo nella struttura di comando di cui sopra. Per Don Pepé tutto è strumentale al mantenimento del proprio potere: la religione, il lavoro, il matrimonio, le assunzioni, gli appalti, il clientelismo, il familismo. Infatti, fa affari e si arricchisce senza contestazione alcuna; comanda su tutto e tutti, eppure non è soddisfatto. Gli manca “Roma” vale a dire il Parlamento, il costante riferimento simbolico di un vero potere. Egli sogna di ottenere un mandato parlamentare, un posto al Montecitorio, e da anni dirige tutti gli sforzi e tutti gli intrighi per riuscire nell’intento.
Il suo protettore, nonché promotore e complice, è l’onorevole Pietrino Buffetto, un approfittatore “dall’alito cattivo e dalle mani lunghe”, il quale, con le sue millantate influenze romane, promette di far realizzare i sogni di Don Pepé. Si tenga presente che Buffetti comanda nel paese un’immensa schiera di clienti ai quali non fa mancare niente, specie a ridosso delle elezioni. Un’altra complice del sindaco è la moglie Filomena, una donna bella e, sembrerebbe, devota al marito; ma che in realtà cova, nei suoi confronti, un profondo rancore e trama per le ambizioni proprie.
A parte questi due, la surreale danse macabre che si aggira attorno a Don Pepè è composta da una folla di uomini senza volto e spesso senza un cognome – un Ninuzzo, un Santino – segretari, tirapiedi, uomini ombra, servi devoti, parenti e clienti. Persino la malavita fa una figura misera quando offre a Don Pepé un seggio in Parlamento al prezzo di cinquanta milioni, per vedere poi, inerme, sfumare l’affare. Quel che unisce tutti questi uomini, e qualche donna, è appunto la iubris, la pervadente superbia derivata da qualunque, anche minimo, potere nei confronti di chi non ne ha nessuno, in una vera e propria cascade de mépris, termine usato dallo storico François Furet in riferimento all’antico regime. Come si sa, la iubris deve, inevitabilmente, portare a una catastrofe, che infatti si avvererà con l’uccisione di Filomena per mano del marito. Ma anche la catastrofe si risolve in una farsa.
Il quadro è surreale ma anche caricaturale, perché ogni personaggio con i suoi tratti iperbolici è emblematico di una condizione politica e culturale degradata. Insomma, una rappresentazione impietosa di una Calabria che sembrerebbe persino aver rimosso la stessa nozione della speranza.
Tuttavia, questa dominante costruzione di “sembrerebbe …. ma …” è fin dalla prima pagina complicata da un altro twist narrativo, rappresentato dalla giovane Maria. La incontriamo già nel primo paragrafo, quando incede lenta tra le dimore vecchie e deserte del centro storico alla ricerca dello studio di Don Ruggero.
Il personaggio di Maria è cruciale per il romanzo ma è anch’esso surreale: sempre presente ma poco definito, anzi, appena abbozzato. Di lei conosciamo il viso pulito, le scarpette e la borsetta verdi, la semplicità, l’ingenuità, la timidezza, la lealtà. La sua sorte si intreccia con quella di Don Pepé, diventando così un destino; in realtà, Maria è sua figlia, nata da una storia d’amore con una popolana, l’amore che la sua iubris gli fece sacrificare in favore di Filomena. Nel sindaco, Maria è l’unica a vedere un padre, non un padrone e, sorprendentemente, anche Don Pepé, nei suoi confronti, si scopre capace di essere protettivo, nonché gentile e giusto. L’unica innocente in tutta questa storia è proprio Maria, come un raggio di speranza in una terra senza speranza.
Ovviamente, il romanzo di Attilio Sabato può essere letto nel senso moralistico-educativo, come la denuncia di una terra, la Calabria, che non cambia e non cambierà mai, condizionata com’è da logiche clientelari e familistiche, estranee allo spirito democratico ed evolutivo della nazione italiana. Questi romanzi-denunce formano quasi un genere letterario a sé, in voga dalla metà dell’Ottocento, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848. Frutto dell’amore per la propria terra a volte eccessivo, il quale – frustrato – spesso si tramuta in una specie di odio disperato e nell’invocazione di interventi “chirurgici”, ahinoi, dall’esterno, questo genere ha contribuito non poco a creare e consolidare la Questione Meridionale come rappresentazione. Perciò, preferisco leggere il libro di Sabato nella chiave di Ubu Re, dove nulle part può essere interpretato, dal greco, come oû-tópos, Utopia.
Marta Petrusewicz