L’ispezione ministeriale che ha inguaiato Lucano (e che lui stesso ha sfidato…)

A capo del Viminale Marco Minniti nel 2016 quando il capo di gabinetto e direttore del dipartimento del Viminale Mario Morcone manda le carte in procura. Ma è stato l'allora sindaco di Riace a “invitare” la prefettura dopo alcuni rilievi più o meno di rito arrivati dal circuito Sprar

di Domenico Martelli

Si chiama Salvatore Gullì l’uomo in “grigio” e con fare puntiglioso e severo. Lo temono tutti del resto e non a caso, per conto della prefettura di Reggio, ha gestito provvisoriamente tra gli altri il Comune di San Luca. Non proprio un condominio di Trento. È suo l’autografo conclusivo all’ispezione sul “modello Riace” ma non è lui il “mandante”.
Siamo a fine anno del 2016 e siamo sotto l’egida del ministero degli Interni guidato da Marco Minniti. Il “mandato” lo porta all’incasso Mario Morcone, a capo del dipartimento del Viminale e capo di gabinetto di “Domenico detto Marco”. È lui che griffa il file che finisce in procura («atto obbligatorio» confessa a “Repubblica” qualche tempo dopo).
Una ispezione con più ombre che luci. Dura, a tratti con profili inevitabilmente penali. Ma quello della prefettura che è poi valso il blocco dei fondi anche da parte del ministero non è il primo “scatto” alla foto di gruppo. È un atto conclusivo, quasi “sfidato”. Il sequel inizia prima però. Non molto, ma inizia prima. Da una ispezione rituale e a ritmo semestrale a cura dello Sprar nazionale, l’ente che poi è chiamato a controllare in qualche modo tutti i progetti d’accoglienza che aderiscono e di conseguenza i Comuni che ci vanno appresso. E qui passiamo ad una donna, tecnicamente non estranea alla materia e con un retaggio politico ben identificato nell’emisfero dell’accoglienza multicolor. Si chiama Enza Papa, è tutor per i progetti Sprar per la provincia di Reggio. Si occupa con cadenza semestrale di dare un’occhiata dentro i progetti periferici, nel cuore dell’estate del 2016 tocca proprio a Riace.
Evince delle criticità che non manca di far notare tanto al Comune guidato da Mimmo Lucano quanto all’ente che sovraintende e al quale deve dar conto e cioè allo Sprar.
Criticità anche importanti che però si alimentano, per statuto, di una particolarità. Non hanno rilevanza né civile né penale né amministrativa ma sono solo da recepire come delle dritte, dei consigli, dei correttivi.
Del resto è lo Sprar che controlla le sue stesse intercapedini e ha tutto l’interesse a risolvere dentro gli “spogliatoi” ogni faccenda. Mimmo Lucano però, che nel frattempo è al top della fama e le riviste internazionali lo collocano tra i 50 uomini più influenti del Paese, non la prende. Al contrario, s’incazza. Non ci sta. Non incassa i rilievi e men che meno li recepisce come dei consigli. Ci vede dell’altro dietro ed è convinto invece di aver sempre agito e di aver guidato la gestione del “modello” con sostanziale correttezza.
E passa al contrattacco. Mediatico, simbolico, formale ma anche denso di sostanza. Ma non sa, e non immagina, che sta “firmando” la sua stessa fine.
È lui infatti che prende l’iniziativa e scrive di suo pugno una lettera al prefetto sollecitando una vera e propria ispezione.
Questa sì esterna e formale e senza barriere di protezione e soprattutto senza un finale già scritto o che si può in qualche modo contenere. Una ispezione in mano a Gullì che va a spulciare dentro tutte le carte.
Ci sono “luci” nel modello, anche rintracciate con dialettica irrituale per essere una ispezione prefettizia. Ma anche tante “ombre”. E abbiamo visto che ombre per i giudici di primo grado.
Sono dodici i capitoli dell’ispezione con all’interno evidenti «irregolarità amministrative». Un «palese danno erariale per quanto riguarda alcune poste di bilancio» nonché dei «profili penali tutti da chiarire». La colpa del Comune guidato da Lucano sarebbe stata quella di non aver controllato le spese e la relativa documentazione presentata dai gestori dei progetti. Sei cooperative che ogni anno hanno gestito poco meno di due milioni di euro. Convenzioni stipulate «senza una gara pubblica», questo contestano tra l’altro gli ispettori. Contrattualizzate «per chiamata diretta o fiduciaria» che si possono giustificare ogni tanto «ma non come sistema». Criteri di selezione ampiamente e assolutamente personali e discrezionali – si legge ancora nella relazione – lesivi della concorrenza, che non sembrano conformi ai principi di imparzialità e trasparenza».
I funzionari rilevano come questi atti «non prevedono contenuti essenziali quali l’applicazione di penali nel caso di inadempienze, la risoluzione del rapporto e la specifica e complessiva dotazione di personale e relative professionalità da impiegare».
Capitolo importante della relazione è quello poi dei fitti delle case per i migranti. Più di 200mila euro all’anno ai privati per le abitazioni da offrire. Abitazioni che «vengono reperite direttamente e autonomamente dagli enti gestori, senza adeguate ricerche di mercato».
«I canoni di locazione – scrivono gli ispettori – non appaiono congrui rispetto al mercato immobiliare locale. Nonostante la classificazione catastale risulti essere spesso A3 (abitazioni economiche) la media dei fitti pattuiti non è quasi mai inferiore ai 300 euro mensili». E poi l’accusa o l’ombra più nera di questo capitolo, «ci sono proprietà di alcuni immobili riconducibili a soggetti legati da vincoli di parentela con personale degli enti gestori». I 70 operatori (costo 600mila euro all’anno) «sono stati assunti tramite chiamata diretta fiduciaria e i relativi curricula vitae trasmessi al ministero solo di recente». Naturalmente da qui parte l’inchiesta della procura che conosce l’epilogo (temporaneo) che è cronaca di queste ore. Per il resto e cioè per l’intera gestione amministrativa finita sotto la lente dell’ispezione prefettizia il gip in prima istanza riconosce in qualche modo la “colpa” ma non il “dolo”. “Dolo” che poi s’è fatto clamorosamente maturo strada facendo fino ai 13 anni e 2 mesi in primo grado a 3 giorni dal voto. Gli occhi persi nel vuoto di Lucano in maniche di maglietta al suono della sentenza di fatto commentano non tanto il reale quanto quello che poteva essere e non è stato. A partire da una ispezione che lui ha “sfidato” non immaginando che forse il “capo” del Viminale non aspettava altro…