‘Ndrangheta stragista, ergastolo anche in Appello per i boss Graviano e Filippone

Nel 94 fecero uccidere due carabinieri. Ultimo incrocio la probabile Cassazione

Dopo oltre 7 ore di camera di consiglio, la Corte d’Assise d’Appello presieduta da Bruno Muscolo (a latere il giudice Giuliana Campagna), ha confermato la sentenza di primo grado del processo ‘Ndrangheta stragista e ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro.
Carcere a vita: così come aveva fatto la Corte d’Assise nel luglio 2020, anche i giudici di piazza Castello hanno sposato l’impianto accusatorio sostenuto in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dal sostituto Walter Ignazitto secondo cui l’agguato ai carabinieri rientra nelle cosiddette “stragi continentali”. Per la Dda, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri, infatti, quel duplice omicidio e gli altri due attentati ai danni di altrettante pattuglie dell’Arma facevano parte di quella strategia stragista che ha insanguinato l’Italia e che è stata messa in atto da Cosa nostra e ‘Ndrangheta nella prima metà degli anni ‘90. Non è un caso che, nella sentenza di primo grado, si parli di “una strategia unitaria per destabilizzare lo Stato”.
Unitaria perché “la ‘Ndrangheta agì d’intesa con Cosa nostra siciliana”. Affiancato dal sostituto della Dda Walter Ignazitto, il procuratore Lombardo lo ha ripetuto più volte nella requisitoria durante la quale ha lanciato pure un appello al boss di Brancaccio: “Quando Graviano troverà la forza di dirci chi gli ha chiesto il proseguimento della strategia stragista già in atto, avremo un ulteriore tassello di verità”. Al momento quella forza Graviano non l’ha trovata così come non ha mai spiegato la frase (“Abbiamo il Paese nelle mani. I calabresi si sono mossi”) che, stando alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, avrebbe detto a quest’ultimo nel famoso incontro al bar Doney di via Veneto a Roma. Secondo i magistrati, tanto gli attentati dei carabinieri in Calabria quanto il progetto della strage all’Olimpico, dove sarebbero dovuti morire 55 militari dell’Arma, rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista”.
È chiaro, stando alla tesi della Procura, che si è trattato di una strategia inquadrata in un preciso contesto politico, l’autunno del 1993, “in cui in Italia – è stata la ricostruzione di Lombardo in aula – dopo moltissimo tempo si corre il rischio di un governo a guida comunista. Perché nell’autunno del 1993 Achille Occhetto vince le elezioni amministrative e inizia a parlare da presidente del Consiglio. È un momento storico decisivo per le sorti di una Nazione che sta vivendo una stagione difficilissima, iniziata in epoca ben antecedente rispetto alla caduta dei blocchi contrapposti nell’autunno del 1989. Quello è un momento storico anche per effetto della forza distruttiva generata dalla vicenda Mani pulite, gestita dalla Procura di Milano, che deflagra su quello che rimane della Democrazia cristiana e del Partito socialista. L’unico interlocutore di sinistra che ha una capacità aggregante è il Pds di Achille Occhetto che ovviamente in quel momento parla come se non avesse avversari. E non ha avversari in realtà. L’avversario verrà formalizzato dopo qualche mese. L’avversario diventerà Forza Italia e abbiamo visto che, per voce unanime delle varie componenti mafiose, il sostegno elettorale doveva essere canalizzato verso quel nuovo movimento politico. Occhetto non si è più ripreso da quella mazzata tant’è vero che ha smesso di fare politica. Erano le elezioni della primavera del 1994 e, visto che sono fatti storici, siamo al primo governo Berlusconi”.
Anche nel processo di secondo grado il nome dell’ex presidente del Consiglio e quello di Forza Italia sono stati ripetuti più volte in aula. Nelle motivazioni della prima sentenza, che è stata confermata oggi dalla Corte d’Assise d’Appello, i giudici avevano fatto espresso riferimento ai “mandanti politici” delle stragi continentali che, su indicazione dei servizi segreti deviati, venivano rivendicate dalla ‘Ndrangheta e da Cosa nostra con la sigla “Falange Armata”.
Ecco perché nella prima sentenza si legge che le “responsabilità degli imputati” Graviano e Filippone “costituiscono soltanto un primo approdo”: dietro agli attentati è “assai probabile” che oltre alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra vi fossero “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre”. Un concetto ribadito pure nel secondo processo dove il pg Lombardo ha fatto riferimento a “interlocutori politici” che “sono stati individuati, indipendentemente dal fatto che possano esserci responsabilità personali ancora da accertare”.