Coronavirus, allarme scuole: la “bomba” Calabria divide i Palazzi

Conte, tentato dall'avocare a sé tutti i poteri delle Regioni, non chiude (per ora) le aule ma rischia di non tenere conto della trazione “migratoria” tutta conterranea. Emiliano in Puglia obbliga chi è rientrato dal Nord a darne traccia al medico e alle autorità. Drammatica riunione in prefettura a Cosenza

È un manager importante, di quelli tosti e di fiducia. Gente di fatture e di commercio e gente che dirige grossi centri commerciali in giro per la regione. È lunedì mattina quando rientra bello e indisturbato in Calabria. C’è persino il sole. Atterra a Lamezia, viene proprio da lì, dalla “zona rossa”. Nessuno gli chiede conto di niente, niente di niente. Allo scalo di Lamezia poco più che una passeggiata. Né termoscanner né autocertificazione neppure una sia piccola e informale domanda sul suo percorso d’origine o di arrivo. E il manager se ne va a casa, immaginiamo anche a lavoro da ieri e senza soluzioni di continuità. Del resto il suo lavoro è incontrare gente e i 14 giorni di “autoquarantena” non tutti sono in grado di poterli rispettare, soprattutto senza sapere cosa esattamente fare. E, soprattutto, il manager ha figli e se non li ha ne conosce o ne frequenta qualcuno, anche indirettamente. Qualcuno che poi va a sedersi tra i banchi di scuola la mattina. Già, la scuola. Una media tra le 4 e le 5 ore tutti seduti in classe a respirare la stessa aria, gli stessi colpi di tosse, le stesse molecole che attendono “sviluppi”. Non a caso è in classe che le influenze di stagione dilagano e non a caso, pur non avendone poteri, Jole Santelli aveva provato a chiuderle prima del gran rifiuto di Conte.
Anna è una insegnante, calabrese più che mai. Intuita l’antifona e prima dei carabinieri a chiudere la “zona rossa” se l’è data a gambe, nottetempo è rientrata in Calabria. «Insieme a me sullo stesso pullman eravamo decine e decine e come noi altri mezzi strapieni. Chiedete alle autostazioni di Cosenza, Catanzaro, Reggio, Lamezia. Siamo rientrati tutti in 48 ore, parliamoci chiaro. Prima della chiusura delle “zone rosse” sono passate delle ore e si capiva bene dove si andava a parare, siamo scappati. Oggi qui in Calabria ognuno è affidato alla propria etica. L’autoquarantena, che però non vuol dire niente. Perché poi è chiaro che si esce e si frequenta lo stesso qualcuno ma soprattutto c’è sempre un contatto che rimanda ai bambini o adolescenti che poi vanno a scuola il giorno dopo». Già, la scuola. Anfiteatro naturale di ogni “dialogo” tra virus. Conte però ha scelto la linea dritta e dura e non vuol sentire ragione fin qui: se non c’è un caso, almeno uno, in quella regione non si chiude nulla. Esiste anche la domanda di riserva nel retro di una strategia del genere. Ma non è forse tardi quando arriva il primo caso? Non si può proprio far niente prima? C’è fermento e c’è tensione alla Regione e nei paraggi della governatrice. Perché una Regione già commissariata sulla salute (e senza potere alcuno in materia di assunzioni di personale, nemmeno in situazioni emergenziali) si sente frustrata, alienata, se non riesce a dire nemmeno la sua in materia di elementare prevenzione. Conte aspetta il primo caso, poi le azioni successiva in linea con il resto del Paese. «Ma la Calabria è diversa, è diversa» commenta disperato e a bassa voce un dirigente del dipartimento Sanità. «Siamo terrorizzati, glielo confesso. La Calabria è un’altra cosa. Qui sono rientrati decine di migliaia di studenti universitari e di insegnanti che navigano attorno alla “zona rossa” tra Lombardia, Emilia e Veneto. Lo sanno tutti questo. La Calabria è piena di emigranti in materia di istruzione, sia che studino fuori o che insegnino. Una marea che nelle ultime ore correndo è rientrata in Calabria. Ripeto, lo sanno tutti questo e lo sa anche Conte solo che non vuol prendere decisioni particolari per la Calabria». Più o meno per le stesse ragioni, ma con qualche “emigrato” in meno, Michele Emiliano in Puglia ha preso carta e penna e ne ha cantate quattro a Conte. Tu vuoi decidere tutto da solo? Ok, ma io sono responsabile della salute di prima istanza dei pugliesi e così, il governatore del Tavoliere, ha emanato un decreto immediato che costringe chiunque sia rientrato in Puglia dalla zona rossa a segnalarlo al medico di base e alle autorità competenti. Pena la falsità di una dichiarazione mendace, con tutte le conseguenze penali del caso. «Ma qui da noi pure che lo segnalano al medico di base che cambia, niente» confessa ancora il dirigente della Cittadella. «Qui bisogna limitare il disastro imminente ormai, chiudendo almeno le scuole. Dove sono i medici di base qui in grado di prendere delle decisioni immediate? E con quali mezzi?».
Sul punto meglio (non) raccontare movenze ed esito dell’ultima riunione in prefettura a Cosenza. Letteralmente drammatica. Non quella di oggi tra prefetture a Catanzaro con il borotalco d’ufficio e un altro numero verde spalmato così da perdere altro tempo al telefono. Quella dei 10 casi fin qui monitorati e tutti negativi. Ma quella vera, quella con le mani che per millimetri non sono arrivate ai colli delle camicie. Quella, riunione in prefettura a Cosenza, con gridate al cielo e forme dialettali alla base delle bestemmie. Quella nella quale un esponente istituzionale entra «preoccupato, come tutti, prima di uscirne allarmato, disperato». Ci sono tutti al tavolo e nessuno, nel senso che non si intravede chi se la sente e ha titoli per prendere decisioni. C’è la protezione civile, che si chiama letteralmente fuori in materia. C’è la taske force dell’Asp di Cosenza, i responsabili di distretto, i vertici degli ospedali territoriali. C’è l’Annunziata, ma non nel suo punto più alto. C’è il viceprefetto, il sindaco di Cosenza, il presidente della Provincia. E poi carabinieri, guardia di Finanza, medici di base. Già, medici di base. Le urla più incazzate. Ognuno usa il tavolo per rivendicare problemi e debolezze, smarrimento. Finché non viene fuori la tesi di costringere i medici di base a prendere in mano la situazione, andando nelle case dei “sospetti”. Si scatena l’inferno. Ma con quali mezzi? Con quali protocolli? E, soprattutto, senza neppure le mascherine? L’Annunziata stringe le spalle, della serie siamo già pieni di guai che ognuno si tenga a casa le prime paure. Ovviamente a ruota segue la disarmante sprovvedutezza delle altre strutture pubbliche. Finché Mario Occhiuto, in qualità di sindaco del circondario in materia di sanità, non propone di mettere a disposizione una tendostruttura solo e soltanto per i casi sospetti e in via di accertamento. Non risponde nessuno. Perché nessuno può rispondere al “tavolo” che non c’è. Il tavolo delle rivendicazioni e dei poteri che non ha nessuno, e che nessuno vuol prendersi. E si ritorna al rosario in mano. Una preghierina la sera e chissà che il virus a forma di corona, nonostante i migranti rientrati a casa e le scuole dei propri figli regolarmente aperte, non getti lo sguardo da qualche altra parte…

I.T.