La Cassazione ha respinto il ricorso di Carlo Lamanna, boss del gruppo criminale Bruni-Zingari, che aveva chiesto la continuazione di alcuni reati, commessi precedentemente agli altri reati di tipo mafioso per cui è imputato in altri processi che man mano stanno arrivando a sentenza definitiva.
La continuazione gli avrebbe consentito un ricalcolo di alcune vecchie condanne. Scrive la Cassazione:
“Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di assise di appello di Catanzaro, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza di Lamanna Carlo di riconoscimento della continuazione tra i delitti di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso, tentato omicidio e associazione per delinquere e altri reati fine oggetto di tre diverse sentenze di condanna. Secondo la Corte territoriale, il tentato omicidio non costituiva reato fine dell’associazione di stampo mafioso ed era stato commesso alcuni mesi prima della nascita del sodalizio; inoltre la ritorsione nei confronti della vittima era scaturita da ragioni occasionali e contingenti; non emergevano, altresì, elementi indicativi della continuazione tra i due reati associativi che erano differenti per tipologia, per ambito territoriale di operatività e per componente soggettiva ed erano inoltre distanziati di due anni. Ricorre per cassazione il difensore di Lamanna Carlo, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. Secondo il ricorrente era erroneo il riferimento alla data di nascita dell’associazione per delinquere di stampo mafioso: tali associazioni, al momento della loro costituzione, non hanno le medesime caratteristiche che si formano nel tempo; pertanto, doveva ritenersi che le condotte poste in essere da Lamanna fossero riconducibili al programma delinquenziale dell’associazione: del resto, il tentato omicidio costituiva un’azione di risposta ad uno “sgarro” subito da un componente del sodalizio mafioso; i soggetti condannati per quel delitto erano, altresì, partecipi dell’associazione di stampo mafioso. In realtà, il tentato omicidio di Bevilacqua era la prima effettiva esplicazione dell’operatività dell’associazione mafiosa e atto prodromico alla nascita del sodalizio. Sussisteva la continuazione anche tra i due reati associativi: l’operatività temporale era pienamente sovrapponibile e non poteva essere escluso che le rapine ai portavalori in Puglia fossero oggetto del medesimo disegno criminoso dell’associazione calabrese: su questo punto, l’ordinanza appariva illogica. Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria con cui chiede la remissione del procedimento ad altra Sezione penale. Il ricorso è inammissibile per essere i motivi non consentiti nel presente giudizio di legittimità. In effetti, benché richiami i vizi di violazione di legge e di illogicità della motivazione, il ricorrente sollecita questa Corte a sovrapporre la propria valutazione di merito sulle istanze a quella espressa dalla Corte territoriale, evidenziando elementi in fatto che, secondo la sua prospettazione, avrebbero dovuto indurre il giudice ad accogliere l’istanza: l’operatività dell’associazione di stampo mafioso in epoca precedente alla sua costituzione, avvenuta in epoca accertata giudizialmente; le motivazioni del tentato omicidio; la sua riconducibilità ai vertici dell’allora non ancora esistente sodalizio; la partecipazione alle rapine portavalori in Puglia di componenti dell’associazione calabrese; la previsione fin dalla costituzione dell’associazione di stampo mafioso calabrese di effettuazione di rapine ai furgoni portavalori in Puglia. Si tratta di elementi che l’accurata ordinanza prende in considerazione e valuta, fornendo una motivazione niente affatto manifestamente illogica, che si sottrae quindi, alla valutazione di questa Corte. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di euro 2.000 (duemila) in favore delle Cassa delle Arnmende, non esulando profili di colpa nel ricorso (v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000). Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro 2.000 alla Cassa delle Ammende”.